LE SUPERNOVAE

Nel 1054 d.C., l’Europa era ancora immersa nelle fitte nebbie intellettuali del Medio Evo; quel che era rimasto della scienza e della cultura antiche, dopo il disastro della caduta dell’Impero romano e gli sconvolgimenti che si erano succeduti in quei secoli oscuri, giaceva sepolto nell’oblìo delle fin troppo mitizzate biblioteche dei monasteri; soltanto le certosine fatiche degli amanuensi cercavano di tramandare ai posteri i residui dell’antica sapienza. La cieca, indiscussa accettazione del verbo degli antichi maestri spegneva ogni ansia di ricerca, e la conoscenza si riduceva al mero perpetuarsi della tradizione. Così, lo studioso d’Astronomia conosceva a menadito l’Almagesto di Tolomeo, ma non levava che raramente l’occhio a guardare il cielo: temendo, forse, la novità più dell’errore.

Solo così si spiega il fatto incredibile che nessun documento europeo faccia menzione di un avvenimento eccezionale, che gli astronomi cinesi e giapponesi descrissero minutamente nelle loro cronache: nel luglio di quell’anno, nella costellazione del Toro emerse, apparentemente dal nulla, una stella tanto brillante da risultare, al massimo del suo splendore, visibile persino in pieno giorno. Dopo alcune settimane di tanto fulgore, cominciò a declinare finchè, verso metà aprile del 1056, l’occhio nudo non ne percepiva più alcuna traccia. Ma le tracce rimasero, eccome, anche se celate all’occhio privo di ausilii ottici, tanto che, avendole ritrovate, oggi sappiamo che ciò che ne è rimasto è ancor più meraviglioso della straordinaria apparizione descritta dagli antichi astronomi orientali.

La storia delle osservazioni di quest’oggetto affascinante, cominciata in oriente, viene ripresa in Europa, per caso, circa settecento anni dopo. Nel 1731 infatti, quando il telescopio era ormai uno strumento diffuso tra studiosi e appassionati d’astronomia, un dilettante scozzese scoprì una curiosa nebulosità nella costellazione del Toro. E pochi decenni dopo, Messier fece iniziare il suo famoso catalogo proprio da quest’oggetto (appunto M1) detto anche “Nebulosa Granchio” (Crab Nebula). Era una nebulosa con uno sfondo diffuso e un insieme di filamenti ramificati uscenti dalla zona centrale. Nel 1921 K. Lundmark osservò che quest’oggetto occupava proprio la stessa regione celeste in cui, secondo le fonti orientali, era apparsa la straordinaria stella del 1054. Altri scoprirono, quasi contemporaneamente, come la nebulosa fosse in espansione (da piccoli cambiamenti rilevati in foto riprese a distanza di anni), e calcolarono che per raggiungere le dimensioni attuali aveva dovuto impiegare circa 900 anni. Bastava, a questo punto, sommare due più due.

Non fu difficile, dai valori della velocità radiale e dello spostamento angolare annuo, calcolare la distanza dell’oggetto, che risultò essere di 4100 anni luce (poi corretti in 6600). Dalla distanza, e dallo splendore desunto dalle antiche cronache, fu calcolato uno splendore intrinseco dell’astro che lasciò senza fiato gli studiosi: risultò un valore che superava di trecentomila volte lo splendore del Sole.

Ma non si trattava di un caso isolato: si trovò che almeno altre due stelle, nel 1572 e nel 1604, avevano avuto un comportamento simile. Queste stelle eccezionali furono denominate “supernovae”.

La scoperta che la Crab nebula è il risultato dell’evoluzione della supernova del 1054 fu solo la prima di numerose altre scoperte sempre più eccitanti. Nel 1948 se ne scoprì la natura di radiosorgente, poi che la luce emessa dal fondo diffuso è polarizzata (il che vuol dire che emette radiazione di sincrotrone, testimone della presenza di un campo magnetico e di elettroni che si muovono a velocità paragonabili a quella della luce; v. foto a sinistra). Nel 1964 la Nebulosa si rivelava anche sorgente di raggi X. Nel 1968, la scoperta più importante: la Crab nebula doveva contenere una pulsar, una stella di neutroni, oggetto fino allora mai osservato, ma teorizzato e descritto sin dal 1933 da Zwicky quale prodotto delle esplosioni delle supernovae. L’ipotetica pulsar nascosta nella Crab nebula emetteva impulsi radio ad intervalli brevissimi: uno ogni 33 millesimi di secondo.

A questo punto, ci si chiese se magari, essendo rimasta qualcosa dopo l’esplosione del 1054, questo qualcosa fosse ancora visibile. E nel 1969, osservando con l’ausilio di speciali tecniche una delle stelline visibili presso il centro della nebulosa, si scoprì che emetteva fortissimi guizzi luminosi, con la stessa frequenza della pulsar; in seguito, si osservavano identiche pulsazioni anche nella banda dei raggi X. La coincidenza di tutte queste osservazioni, e l’elaborazione delle ricerche teoriche conesse, non lasciavano più adito a dubbi: le stelle di neutroni esistono, sono i resti delle supernovae, e ce n’è una al centro della Crab nebula.

Rimandando ad altra occasione la descrizione, sia pur sommaria, di una stella di neutroni, facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire perchè una stella, a un certo punto della sua esistenza, invece di spegnersi magari lentamente e tranquillamente come un camino che ha bruciato tutta la legna, esploda con una furia inconcepibilmente devastante, dando luogo a quel meraviglioso e terribile fenomeno che abbiamo chiamato supernova.

Sappiamo bene che, come qualsiasi altra fonte di luce, una stella splende perchè brucia energia. Questa deriva dalla lenta conversione di idrogeno in elementi più pesanti attraverso una catena di reazioni termonucleari con cui lo 0.7% circa della massa totale della stella viene convertito in energia secondo la famosa E=mc2 di Einstein. La conversione si ferma quando viene sintetizzato il ferro: questo infatti in un’eventuale ulteriore fusione nucleare non sarebbe in grado di produrre l’energia atta a sostenere la pressione gravitazionale della stella: anzi, ne assorbirebbe dell’altra. E, quindi, possiamo considerare il ferro come un materiale inerte, diciamo così, incombustibile. Quando una stella massiva ha accumulato abbastanza ferro nel suo nucleo, dunque, le reazioni termonucleari si interrompono e inizia il collasso. Questo procede dapprima molto lentamente innalzando gradualmente la temperatura. Oltre un certo limite, diventa possibile la conversione della coppia protone-elettrone in una neutrone-neutrino. I neutrini appena prodotti lasciano la stella portando via energia: il collasso viene ulteriormente accelerato e la temperatura sale oltre il limite in cui il ferro comincia a decomporsi assorbendo ulteriormente energia dal nucleo centrale della stella. L’effetto finale di questi processi è la conversione quasi totale degli elettroni e dei protoni in neutroni e neutrini.

In pochi secondi il nucleo centrale collassa in una configurazione estremamente densa (stella a neutroni o pulsar) in cui la densità raggiunge financo 10.000 miliardi di volte quella dell’acqua. Un cucchiaio di questa materia ultradensa contiene tutto il materiale di una montagna. A seconda della massa della stella l’implosione si ferma allo stadio di stella di neutroni, oppure procede verso quello di buco nero.

Se si forma una pulsar, l’energia dell’implosione viene trasmessa, alla velocità della luce, al mantello esterno, che non ha praticamente ancora iniziato la caduta verso il centro (non sono trascorsi che pochi secondi). Questo mantello viene riscaldato ad una temperatura di miliardi di gradi e scagliato via da una spaventosa pressione di radiazione alla velocità di migliaia di chilometri al secondo. Un osservatore esterno vedrebbe la stella trasformarsi, pressocchè istantaneamente, in un globo infuocato che si espande rapidissimamente, tutto cancellando sul suo cammino. La Crab nebula che oggi ammiriamo è il residuo di quel mantello, che dopo quasi un millennio continua la sua espansione nello spazio.

Esiste un unico modello di supernova? certamente no, ne conosciamo di almeno due tipi. Quelle dette di tipo I sono le più luminose, e sono estremamente regolari nel loro comportamento. La loro frequenza media sembra essere di una ogni 450 anni. La supernova all’origine della Crab nebula fu certamente di questo tipo.

Le supernovae di tipo II sono meno rigide nel comportamento, la loro fluttuazione non è altrettanto tipica, e il loro massimo splendore è assai inferiore a quello delle supernovae di tipo I. La loro frequenza sarebbe di circa una ogni 50 anni.

E’ possibile che il Sole decida di finire la propria vita in gloria come supernova cancellandoci dall’universo? Si tratta di un’eventualità molto improbabile. Occorre infatti una stella di grande massa per giungere a sintetizzare il ferro e produrre le intense forze gravitazionali necessarie per il collasso. Se tuttavia una stella così vicina come Sirio esplodesse come supernova ne risentiremmo indubbiamente un effetto negativo. L’esplosione inietterebbe nello spazio una grande quantità di raggi cosmici e provocherebbe intensi disturbi radio. Inoltre la supernova illuminerebbe a giorno le nostre notti provocando anche sconquassi ecologici. Lo spettacolo sarebbe avvincente ma devastante.

Già qualche anno fa W. H. Tucker aveva calcolato che una supernova distante 60 anni luce, con una forte emissione di energia sotto forma di raggi X e gamma, avrebbe danneggiato la fascia di ozono nella stratosfera terrestre e provocato conseguenze letali. Queste previsioni sono tuttora controverse, ma c’è dell’altro.

Nel 1979, l’èquipe di R.T. Rood studiava la concentrazione dello ione NO3- nei ghiacci dell’Antartide. Questo ione viene prodotto nell’atmosfera terrestre dal bombardamento cosmico dei raggi X o gamma. Analizzando il ghiaccio a varie profondità, dalla percentuale di ioni NO3- ai diversi livelli si può valutare l’intensità del bombardamento X o gamma negli anni passati. Rood e i colleghi avevano perforato il ghiaccio per cercare le variazioni della radiazione X o gamma proveniente dal Sole, trovando fluttuazioni più o meno ampie. Ma alle profondità corrispondenti agli anni 1604, 1572 e 1181 trovarono tre picchi intensissimi, e di brevissima durata. In quegli anni erano apparse tre supernovae. Purtroppo il carotaggio non si era spinto tanto fino a raggiungere i livelli corrispondenti alle supernovae del 1054 e del 1006, entrambe intensissime. Rood e i suoi collaboratori ritennero di poter spiegare l’ampiezza delle punte osservate con un’emissione, da parte di ognuna delle tre supernovae, di circa 1050 erg sotto forma di raggi X o gamma. Questa emissione sarebbe 1000 volte superiore a quella prevista da Tucker che, per una supernova distante 60 anni luce, sarebbe letale per gli organismi terrestri. C’è proprio di che stare allegri. Ma, per fortuna, sempre Tucker calcola che in una sfera di 600 anni luce di raggio, centrata sulla Terra, non deve esplodere più di una supernova ogni 50 milioni di anni.

Nell’intera Galassia esplode in media una supernova ogni trecento anni, e gli astronomi sono continuamente all’erta nella speranza di osservare oggetti del genere durante lo stadio iniziale, il più interessante. Ma non è difficile scoprire delle supernove nelle galassie vicine: su scala cosmica, non si tratta di un evento così raro.

Esistono prove secondo cui parte del materiale di cui è fatto il sistema solare proviene da un’antichissima esplosione di supernova. Si pensa che le regioni esterne della stella, quando vengono proiettate via ad altissima velocità, agiscano come una “scopa cosmica” spingendo davanti a sè tutti i detriti (polveri e gas interstellare) che incontrano sul loro cammino. A volte questo materiale si concentra, sotto le onde d’urto di altre esplosioni, fino al punto in cui diventa gravitazionalmente instabile e si condensa in nuove stelle. Pare che il nostro Sole sia nato così. Si assiste dunque ad un continuo riciclaggio tra stelle e materiale interstellare che viene costantemente arricchito e smosso dalle supernovae. Ma della formazione del sistema solare parleremo, più diffusamente, in un’altra occasione.

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