La determinazione delle distanze in astronomia

Le dimensioni dell’universo non sono intuitive: non c’è nulla, in esso, che lo faccia apparire particolarmente distante ad un osservatore casuale, la cui ingenuità non sia stata contaminata dal pregiudizio culturale.

Gli antichi Greci non avevano difficoltà ad accettare che la volta celeste fosse retta sulle proprie spalle dal mitico Atlante, il Titano raffigurato nella splendida scultura presentata qui a destra: si tratta della più antica rappresentazione completa dei cieli, e risale probabilmente al II sec. A. C.; certo, si potrebbe osservare che Atlante era un gigante e potrebbe aver avuto una statura…astronomica. Ma un’altra leggenda, quella che riguarda Ercole, dice che l’Eroe greco, durante l’undicesima delle sue fatiche, convinse Atlante ad impadronirsi per suo conto delle mele d’oro delle Esperidi. E mentre Atlante si dava da fare, Ercole lo sostituiva nell’impresa di reggere sulle proprie spalle il cielo. Be’. Ercole sarà stato pure un pezzo di Marcantonio, ma era pur sempre un uomo e non un gigante. Dunque, per gli antichi Greci, il cielo non si trovava molto più in là della cima delle montagne.

I nostri progenitori vedevano il cielo come una volta rigida, in cui gli scintillanti corpi celesti sono incastonati come gioielli.

Ma si resero conto ben presto che i moti di quei gioielli non erano poi così facili da spiegarsi: e così già fin dal VI sec. A. C. gli astronomi greci capirono che le volte dovevano essere più d’una: perché le stelle “fisse” ruotavano tutte assieme intorno alla Terra, senza cambiare le proprie posizioni relative, mentre alcuni altri oggetti come il Sole, la Luna e i cinque pianeti allora conosciuti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno) seguivano ciascuno un proprio percorso indipendente.

I Greci supposero che ogni pianeta fosse situato su una propria volta sferica invisibile, che le volte fossero sistemate l’una sopra all’altra, e che quella più vicina appartenesse al pianeta che si muove più velocemente; il moto più veloce era quello della Luna, che percorreva un’orbita completa nel cielo in circa ventisette giorni e un terzo. Al di là della Luna, secondo i Greci, si trovavano nell’ordine Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove e Saturno.

Fra il VI e il IV sec. A. C. si susseguirono le diverse cosmologie escogitate dai grandi pensatori greci e dai primi grandi astronomi; ma fu solo nel corso del III sec. A. C. che si passò ad un vero e proprio atteggiamento scientifico, e alla mera speculazione si sovrappose la ricerca di un vero e proprio sistema di misurazione delle grandezze fisiche. E risale al 240 a. C. circa la prima vera misurazione di una distanza cosmica: fu Eratostene di Cirene, che dirigeva la grande Biblioteca di Alessandria, ad effettuarla.

Eratostene osservò (o qualcuno gli fece osservare) che il giorno del solstizio d’estate, quando il Sole a mezzogiorno si trovava esattamente allo zenit sulla città di Siene (Assuan), non era invece allo zenit ad Alessandria, circa 800 km. a nord di Siene. La cosa si spiegava benissimo se la Terra era curva, e ciò era già ben radicato nella cultura greca, Aristotele lo aveva stabilito con osservazioni inoppugnabili.

Dalla lunghezza dell’ombra rilevata ad Alessandria a mezzogiorno del solstizio era possibile, in base a semplici calcoli, ricavare la curvatura della Terra lungo gli 800 km. che correvano tra Alessandria e Siene; e da ciò, se la forma della Terra era sferica, si poteva calcolare il diametro della Terra. I valori ricavati da Eratostene furono, tradotti nelle nostre unità di misura, circa 13 000 km per il diametro e 40 000 per la circonferenza: cioè valori quasi esatti. Purtroppo, tali risultati non vennero accettati dai contemporanei, mentre quelli raggiunti circa centocinquant’anni più tardi da Posidonio di Apamea, cioè circa 29 000 km per la circonferenza, furono presi per buoni e accettati per secoli e secoli, fino a tutto il Medioevo: solo l’impresa di Magellano, tra il 1521 e il 1523, riuscì a stabilire che, dopo tutto, Eratostene aveva ragione.

Più o meno negli stessi anni Aristarco di Samo intuì che quando, durante le eclissi di Luna, l’ombra della Terra si proietta sulla Luna, la curvatura di tale ombra può indicare le dimensioni relative della Terra e della Luna. Su tale base, avvalendosi di metodi geometrici, era possibile calcolare la distanza della Luna in funzione del diametro terrestre. E non si fermò qui, perché la sua audacia giunse a calcolare anche la distanza del Sole: nell’uno e nell’altro caso giunse a risultati molto inferiori alla realtà, ma non a causa di errori teorici. In ogni caso questi risultati ebbero una notevole utilità per cominciare a comprendere gli ordini di grandezza del sistema solare. E benché i suoi calcoli ponessero il Sole molto più vicino di quanto in effetti esso non sia, pure le dimensioni che ne conseguivano erano tali che Aristarco ne dedusse come fosse improbabile che un corpo molto più grande (il Sole) ruotasse intorno ad uno molto più piccolo (la Terra). I dati osservativi si spiegano altrettanto bene sia se il Sole gira attorno alla Terra oppure la Terra attorno al Sole: le due ipotesi erano dal punto di vista teorico quasi equivalenti.

 Inoltre Aristarco comprese che se fosse stata la Terra a girare attorno al Sole, di conseguenza le stelle avrebbero dovuto essere lontanissime. Infatti il fondo stellato, nel corso dell’anno,  non subisce variazioni di parallasse e quindi l’orbita della Terra intorno al Sole doveva essere davvero minuscola rispetto alla dimensione della sfera delle stelle fisse.

La teoria eliocentrica di Aristarco non venne capita nell’antichità, e non ebbe quindi sviluppi.

Riprendendo il metodo di Aristarco,   Ipparco di Nicea, attorno al 150 a.C., ricalcolò la distanza Terra-Luna, ricavandone una misura straordinariamente vicina a quella effettiva: trovò infatti un valore di circa 390 000 km.

Anche se Ipparco, il più grande astronomo dell’antichità, ottenne in altri campi risultati di straordinaria importanza, sulla misura delle distanze astronomiche né lui né alcun altro, fino a poco più di tre secoli fa, portò altri effettivi contributi al problema delle dimensioni dell’universo. Lo stesso Copernico, che nel 1543 impose all’attenzione del mondo le teorie di Aristarco, adottò il valore trovato da Ipparco per la distanza della Luna, ma non aveva alcuna idea della distanza del Sole, per non parlare dei pianeti veri e propri.

Un passo avanti di notevole importanza si fece nel 1650, quando il belga Godefroy Wendelin ripeté le osservazioni di Aristarco con strumenti ben più perfezionati, giungendo alla conclusione che la distanza del Sole non era 20 volte quella della Luna, ma 240 volte, portando la distanza dell’astro da 8 000 000 di km. (il valore di Aristarco) a 96 000 000 di km.: ancora poco, ma l’ordine di grandezza era quello giusto.

Nel frattempo, le leggi scoperte da Keplero sulle orbite dei pianeti rendevano possibile tracciare una mappa in scala del sistema solare: si poteva cioè determinare le distanze relativa e le forme delle orbite di tutti i pianeti noti; a questo punto, sarebbe stato sufficiente determinare la distanza di un qualsiasi corpo, purché esterno al sistema Terra-Luna, per ricavarne tutte le altre distanze.

Un metodo di per sé sicuro (quando adottabile) per calcolare le distanze cosmiche è quello basato sulla parallasse. Tale metodo si riferisce alla misurazione dell’angolo coperto dal movimento dell’astro rispetto a due posizioni della Terra lungo la sua orbita.

Per capire meglio questo metodo basta mettere un dito a pochi centimetri dagli occhi e chiudere prima un occhio, osservare la posizione del dito rispetto allo sfondo e poi fare altrettanto chiudendo l’altro occhio. Il dito sembrerà essersi mosso in relazione allo sfondo. E tanto più il dito sarà vicino agli occhi, tanto più ampio sembrerà lo spostamento.

Astronomicamente parlando, ad ogni occhio corrisponde la posizione della Terra in punti opposti nella sua orbita intorno al Sole, al dito invece corrisponde l’astro di cui si vuole misurare la distanza (guarda il disegno sopra). Conoscendo il diametro dell’orbita terrestre e misurando l’angolo (detto di parallasse) corrispondente allo spostamento apparente dell’astro, con un semplice calcolo trigonometrico è possibile calcolare la distanza dalla Terra dell’astro stesso.

Il metodo della parallasse fu impiegato con successo per determinare una distanza superiore a quella della Luna soltanto nel 1673, da Gian Domenico Cassini, che determinò la parallasse di Marte, misurandone la posizione rispetto alle stelle mentre, nello stesso istante, Jean Richer, nella Guiana Francese, compiva l’identica operazione. In seguito a ciò, Cassini calcolò le dimensioni del sistema solare, arrivando al valore di 138 000 000 di km., un valore di poco inferiore (7%) a quello effettivo.

Le stelle.

Fino agli albori del ‘700 la concezione che le stelle potessero essere dei minuscoli oggetti incastonati nella volta solida del cielo, appena al di là dei confini del sistema solare, appariva del tutto rispettabile ancora a molti scienziati.

Già nel 1440 Nicola Cusano sosteneva che lo spazio era infinito e che le stelle null’altro erano se non dei soli disseminati a distanze incommensurabili, illimitatamente e in tutte le dimensioni, e ciascuna con il proprio sistema solare abitato. Ma si trattava di una posizione priva di prove, e non venne minimamente tenuta in considerazione, anche se venne ripresa da Copernico.

Ma nel 1718 Edmund Halley si rese conto che Sirio, Procione e Arturo non si trovavano nelle posizioni tramandate dai greci. E la differenza era troppo grande perché potesse trattarsi di un semplice errore. L’astronomo inglese ne dedusse che le stelle, evidentemente, non sono realmente “FISSE”, ma si muovono liberamente, anche se il loro moto è troppo lento per essere osservato in intervalli di tempo paragonabili alla vita umana media, e con il solo ausilio dell’occhio.

La ragione per cui questo moto proprio è così piccolo da esser passato inosservato per secoli e secoli sta nell’enorme distanza da noi. Le tre stelle da cui Halley trasse le sue conclusioni sono tra le più vicine a noi, ed è per questo che il loro moto proprio finì per essere osservato. E’ la loro relativa vicinanza che le fa apparire così luminose, mentre quelle meno luminose sono, generalmente, più distanti, e il loro moto proprio è molto più difficile da osservare.

Il moto proprio di per se stesso non consente di misurare distanze; è chiaro che le stelle più vicine, quelle che mediamente presentano un moto proprio maggiore, devono presentare una parallasse rispetto a quelle più lontane. Ma di nessuna stella era possibile osservare una parallasse. Anche quando gli astronomi presero come linea di base l’asse maggiore dell’orbita terrestre (299 milioni di km.), osservando le stella dalle opposte estremità dell’orbita a intervalli di sei mesi, non riuscirono ad osservare alcuna parallasse. Quindi, anche le stelle più vicine dovevano essere incredibilmente lontane. E se, malgrado tali distanze incommensurabili, erano così splendenti, allora dovevano avere davvero dimensioni enormi: Nicola Cusano, dunque, aveva avuto ragione.

Ma strumenti di misura e telescopi continuarono a progredire. E l’astronomo e matematico prussiano F. Bessel riuscì per primo nel 1838 a misurare e quindi a calcolare la parallasse di una stella (in realtà una doppia): 61 Cygni, scelta tra le tante del cielo a causa del grande moto proprio di 5,2” d’arco che la facevano ritenere assai vicina a noi e quindi con una parallasse misurabile con gli strumenti del tempo. Bessel determinò per 61 Cygni una parallasse di 0,31 secondi d’arco (le dimensioni di una moneta vista a 16 km. Di distanza) che, data la linea di base costituita dal diametro dell’orbita terrestre, poneva quella stella alla distanza inimmaginabile di circa 100 trilioni di chilometri, circa 9000 volte l’ampiezza del nostro sistema solare.

Date le difficoltà operative di lavorare con i trilioni (1 trilione = 1000 miliardi) si escogitò una misura per le distanze stellari che esprime la distanza percorsa in un anno dalla luce, che viaggia a 300 000 km/s.; un anno luce equivale a qualcosa come 9460 miliardi di chilometri.

Due mesi dopo la performance di Bessel, l’inglese Thomas Henderson determinò la parallasse di alfa Centauri, in 0,75 arcosecondi, equivalente a 4,3 anni luce.

Nel 1900 era stata determinata la parallasse di una settantina di stelle.

Misurazione della luminosità di una stella

Il passo successivo fu la scoperta di un nuovo metodo di misura delle distanze, basato su una classe di stelle il cui splendore è variabile nel tempo. Questo capitolo dell’astronomia comincia con una stella molto luminosa, delta Cephei. Uno studio approfondito dimostrò che la sua luminosità aveva un ciclo di variabilità: dallo stadio di minima luminosità la stella passava in poco tempo a una luminosità doppia, per poi lentamente oscurarsi fino a tornare allo stato iniziale; e questo ciclo si ripeteva di continuo, con la massima regolarità. Si trovò che molte stelle si comportavano in maniera analoga, e furono chiamate, dal nome della capostipite, variabili cefeidi o, semplicemente, cefeidi.

Gli intervalli di tempo tra un minimo di luminosità e il successivo (periodi) variano per le cefeidi da meno di un giorno a quasi due mesi. Il periodo di delta Cephei, a d esempio, è di 5,3 giorni. Le cefeidi e i loro periodi sono importanti per una ragione che richiede una breve digressione.

Da Ipparco in poi, lo splendore di una stella è stata indicata con un parametro chiamato magnitudine: più una stella è luminosa, minore è la sua magnitudine. Ipparco definì le venti stelle più luminose come stelle di prima magnitudine, mentre quelle un po’ più deboli le chiamò di seconda magnitudine; e così via, fino alla sesta magnitudine, cui appartenevano le stelle a malapena visibili.

Solo dal 1856 tale sistema, utile ma abbastanza impreciso, fu trasformato in un preciso sistema quantitativo, basato sul fatto che una stella di prima magnitudine è in effetti 100 volte più luminosa di una di sesta. In base a ciò, il rapporto tra due magnitudini successive è uguale a 2,512: una stella di terza magnitudine, ad esempio, è 2,512 volte più luminosa di una di quarta e 2,512×2,512=6,3 volte circa più luminosa di una di quinta. Per fare qualche esempio: Capella è una stella di magnitudine 0,9, quindi un po’ più luminosa di una di magnitudine 1; Sirio, la stella più luminosa, ha una magnitudine negativa (-1,42), quindi è molto più luminosa di Capella; Venere raggiunge mag. –4,2; la Luna piena –12,7 e il Sole –26,9. 61 Cygni, pur essendo tra le stelle più vicine, è assai meno luminosa, raggiungendo appena magnitudine 5,0.

Queste sono le magnitudini apparenti, cioè ciò che vediamo dal nostro punto di osservazione. Le magnitudini assolute sono stabilite calcolando la luminosità che la stella avrebbe se fosse posta ad una distanza standard di 10 parsec (1 parsec=3,26 a. l.).

Ma torniamo alle cefeidi. Nel 1912 Henrietta Leavitt scoprì nella piccola Nube di Magellano 25 cefeidi, di ognuna delle quali determinò il periodo. Trovò che più il periodo era lungo, più la stella era luminosa.

Una tale relazione non era mai stata notata per le cefeidi più vicine perché di queste conosciamo solo la magnitudine apparente, dato che non ne sono note né le distanze né le magnitudini assolute. Nella Nube di Magellano, trovandosi tutte le stelle a distanze praticamente uguali da noi, le magnitudini apparenti possono essere considerate una misura relativa delle magnitudini assolute. Così, la relazione rilevata poteva essere considerata valida: il periodo delle cefeidi, dunque, aumenta con l’aumentare della magnitudine assoluta. Fu quindi possibile stabilire una curva periodo-luminosità, cioè un grafico che mostra quale periodo debba avere una cefeide di una data magnitudine assoluta, e viceversa.

Se, come è ragionevole supporre, tutte le cefeidi dell’universo si comportano allo stesso modo, esse possono rappresentare un parametro relativo per misurare le distanze, almeno fino alle distanze alle quali i più potenti telescopi possono rivelare cefeidi. Osservate due cefeidi di uguale periodo, si può supporre che abbiano uguale magnitudine assoluta, e quindi, se una cefeide appare quattro volte più luminosa di un’altra di uguale periodo, quest’ultima sarà distante il doppio da noi, dato che la la luminosità apparente diminuisce col quadrato della distanza.

Purtroppo, anche la più vicina delle cefeidi, la Stella Polare, è troppo lontana perché possiamo determinarne la parallasse. Quindi, per stabilire le distanze delle cefeidi più vicine, dalle quali ricavare una scala di distanze per le più lontane, si dovette ripiegare su metodi più indiretti e meno certi, quali i moti propri che su base statistica, avendo a disposizione un campione sufficientemente grande, possono dare valori tutto sommato abbastanza convincenti su larga scala.

Nel 1913 Enjar Hertzsprung stabilì che una cefeide con un periodo di 6,6 giorni aveva una magnitudine assoluta di –2,3: e in base a questo risultato, sulla curva della Leavitt, determinò la magnitudine assoluta di tutte le cefeidi. Qualche anno dopo Shapley corresse il valore di Hertzsprung a 5,96 giorni (sempre per una cefeide di magnitudine assoluta –2,3).

Nel 1918 Shapley cominciò ad osservare le cefeidi della nostra galassia, nel tentativo di determinare con questo nuovo metodo le dimensioni della galassia stessa. A tal fine si occupò degli Ammassi Globulari, le cui distanze valutò tra i 20.000 e i 200.000 a. l.

Nel 1924, Edwin Hubble osservò alla periferia di M31 alcune cefeidi, che permisero di dimostrare come quella che ancora molti astronomi credevano una nebulosa fosse in realtà un’altra galassia come la nostra Via Lattea, distante oltre un milione di a. l.

Nel 1942 Baade scoprì nella galassia di Andromeda un’insospettata differenza tra le stelle delle zone più interne e quelle più esterne, giungendo alla differenziazione delle due popolazioni stellari oggi note, la popolazione I e la popolazione II; in seguito, quando entrò in funzione lo specchio da 200 pollici, Baade confrontò le cefeidi di popolazione II, situate negli ammassi globulari, con quelle del nostro braccio di spirale (popolazione I): risultò che quelle di popolazione II seguivano effettivamente la curva stabilita dalla Leavitt, mentre quelle di popolazione I hanno una luminosità tra quattro e cinque volte maggiore di una di popolazione II con lo stesso periodo. Ciò fece aumentare la stima della distanza della galassia di Andromeda da meno di un milione a due milioni e mezzo di anni luce.

Spettri stellari e Red Shift.

Ma, per potente che sia un telescopio, la sua capacità di osservare le cefeidi delle galassie incontra sempre un limite. Il Telescopio spaziale ha spostato questi i limiti di decine di milioni di anni luce, ma a noi interessa conoscere le distanze di quelle poste a centinaia di milioni e, perché no, a miliardi di anni luce. E qui dobbiamo fare un’altra piccola digressione, per parlare degli spettri stellari.

Questa storia comincia nel 1665-66, quando Newton, cominciando a fare i suoi esperimenti con i prismi, scoprì che si poteva scomporre la luce in quello che egli stesso definì lo spettro dei colori. Ma il passo decisivo nell’utilizzazione di questa caratteristica della luce fu compiuto nel 1814 da Fraunhofer, che fece passare un raggio di luce solare attraverso una stretta fenditura prima di farlo rifrangere in un prisma. Lo spettro così ottenuto era una serie di immagini della fenditura, ciascuna prodotta dalla luce di una diversa lunghezza d’onda. Le numerosissime immagini della fenditura si fondevano, formando lo spettro.

I prismi di Fraunhofer erano costruiti con tale maestria e producevano immagini della fenditura talmente nitide, che era possibile notare l’assenza di alcune immagini della fenditura stessa; se nella luce solare mancavano determinate lunghezze d’onda, era logico che non si formassero immagini della fenditura in corrispondenza di tali lunghezze d’onda, e che lo spettro del Sole contenesse righe nere.

Fraunhofer fece una mappa delle posizioni delle righe nere osservate, e ne contò oltre 700; da allora, esse vengono chiamate righe di Fraunhofer. Nel 1842 le righe vennero fotografate per la prima volta da Alexandre Edmond Becquerel: grazie alla fotografia, e agli altri strumenti moderni, oggi siamo in grado di contare oltre 30.000 righe scure nello spettro solare, e di ciascuna abbiamo misurato la lunghezza d’onda.

Intorno al 1850 gli scienziati cominciarono ad ipotizzare che tali righe fossero caratteristiche dei vari elementi presenti nel Sole. E nel 1859 Bunsen e Kirchhoff svilupparono lo spettroscopio, con il quale scoprirono due nuovi elementi, il cesio e il rubidio.

Lo spettroscopio cominciò ad essere applicato allo studio della luce del Sole e delle stelle, e dette ben presto importanti risultati, a partire dal 1862, quando Angstrom scoprì l’idrogeno nel Sole. Nel 1867 Pietro Angelo Secchi, in base a 4.000 spettri di stelle, classificò le stelle nelle classi spettrali che, attraverso modificazioni varie, giunse a quella attuale che conta 10 classi (O,B,A,F,G,K,M,R,N,S) ognuna delle quali è a sua volta divisa in 10 sottoclassi.

Nel 1848 il fisico francese Fizeau osservò che la posizione delle righe spettrali poteva servire a studiare meglio l’effetto Doppler: molte sono state da allora le applicazioni di questa caratteristica dei fenomeni di tipo ondulatorio. Oltre allo studio delle rotazioni dei corpi celesti e delle velocità radiali (le righe spettrali di un oggetto che si allontana da noi ci appaiono spostate verso il rosso -red shift-, mentre quelle di un oggetto che si avvicina ci appaiono spostate verso i violetto -blue shift), trovando una relazione tra l’entità dello spostamento delle righe spettrali e la velocità radiale di un oggetto rispetto a noi se ne sarebbe potito calcolare la distanza.

Nel 1929 Edwin Hubble, a Mount Wilson, ipotizzò che le velocità di recessione delle galassie crescessero con regolarità, proporzionalmente alla distanza delle galassie stesse. Se la galassia A era a una distanza doppia rispetto alla galassia B, la sua velocità di recessione doveva essere anch’essa il doppio di quella dell’altra. Questa relazione è nota come Legge di Hubble (a sinistra).

La Legge di Hubble è stata continuamente confermata dalle osservazioni, anche se la sua utilità è finora limitata alla misurazione di distanze relative piuttosto che assolute: nel senso che può dirci che una galassia con un red shift doppio rispetto ad un’altra è lontana il doppio di quella: ma in mancanza di altri parametri che ci confermino la distanza effettiva di una delle due (di solito la più vicina) non può effettivamente darci il valore assoluto di tali distanze.

Da cosa dipende tale relazione tra velocità di recessione e distanze?

Immaginiamo un palloncino sul quale siano disegnati dei punti: quando lo si gonfia, i punti si allontanano l’uno dall’altro. Un osservatore posto su uno qualunque di tali punti vedrebbe tutti gli altri punti allontanarsi, e ciò ad una velocità tanto maggiore quanto più essi sono lontani da lui. Non cambia nulla cambiando il punto di osservazione: qualunque punto del palloncino equivale ad ogni altro.

Le galassie si comportano nello stesso modo: l’unica differenza è che il fenomeno dei punti sul palloncino avviene su due dimensioni, mentre l’espansione dell’universo, che provoca l’allontanamento tra le galassie, avviene in tre dimensioni.

E così, dal globo sulle spalle del mitico Atlante siamo giunti ai miliardi di anni luce esplorati attraverso il red shift degli spettri delle più lontane galassie e dei remotissimi Quasars. Riassumiamo quindi brevemente i metodi di misurazione di cui abbiamo parlato, che possono sommariamente dividersi in tre categorie:

  1. Geometrici o trigonometrici (raggio terrestre, parallassi geocentrica ed eliocentrica).
  2. Candele stellari (Cefeidi, Supernovae).
  3. Effetto Doppler-Fizeau (Red shift).

E ripercorriamo, altrettanto sommariamente,

Le tappe della crescita dell’Universo.

Fonte

Epoca

Metodo – Risultati

Mito Greco

Prima del X sec. A. C.

Atlante regge il Cielo sulle spalle: l’Universo si ferma a pochi metri dalla cima delle montagne?
Eratostene di Cirene

250 a. C.

Misurazione del raggio della Terra con metodi matematici.
Aristarco di Samo

250 a. C.

Metodo per misurare le distanze del Sole e della Luna (concettualmente corretto, mancavano gli strumenti sufficientemente precisi)
Ipparco di Nicea

150 a. C.

Misurazione della distanza Terra-Luna, risultato corretto.
Godefroy Wendelin

1650 d. C.

Determinazione della distanza Sole-Terra col metodo di Aristarco, ma con strumenti più evoluti: il risultato è 96.000.000 di km.
Giovanni Domenico Cassini

1673

Misurazione della parallasse di Marte.
Transiti di Venere

1769-1874

Sempre maggior precisione nella determinazione della distanza del Sole.
Friedrich Wilhelm Bessel

1838

Parallasse di 61 Cygni.
Edwin Hubble

1924

Cefeidi in M31
Edwin Hubble

1929

Relazione velocità di recessione-distanza
Walter Baade

1942

Individuazione di diverse classi di Cefeidi.
Hipparchos

oggi

Parallassi di 0,001″
Gaia

domani

Parallassi di 0,000001″

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