PERCHE’ E’ AZZURRO IL CIELO

A questa domanda, niente affatto banale, i fisici sono riusciti a dare una risposta soddisfacente solo alla fine del secolo scorso, e fu una spiegazione che servì a confermare le ipotesi sulla natura della luce e della struttura atomica della materia, che da poco andavano affacciandosi sulla scena della fisica.

Leonardo da Vinci fu probabilmente il primo a cercare di spiegare in maniera che oggi potremmo definire scientifica il colore azzurro del cielo. A quel tempo non poteva certo disporre dei presupposti concettuali necessari a scoprire la vera causa del fenomeno, ma il suo spirito di acuto osservatore e sperimentatore lo condusse a intuizioni sorprendentemente precorritrici che resistettero per secoli senza che nessuno sapesse sostituirle con qualcosa di più valido.

La prima, fondamentale osservazione di Leonardo è che il colore azzurro non è proprio dell’aria, ma le deriva dalla capacità che hanno certe minutissime particelle (che Leonardo identifica con atomi di vapor d’acqua) di farsi luminosi per effetto dei raggi solari, così da diventar risplendenti contro il nero della “regione del fuoco” (oggi diremmo dello spazio esterno all’atmosfera). L’analogia suggerita con il fumo di legna secca è molto interessante e indicativa del fatto che Leonardo aveva individuato un altro punto chiave del problema: la dimensione di questi atomi è un fattore critico e il colore azzurro si manifesta solo se sono abbastanza piccoli.

Certo, Leonardo non poteva immaginare fino a che punto questi atomi fossero in realtà piccoli, ma la sua intuizione era giusta. Occorsero quattro secoli di sviluppo della fisica e della matematica per poter tradurre queste intuizioni in previsioni quantitative e permetterne così una verifica in senso moderno.

Nel 1871, lord Rayleigh pubblicò il suo primo lavoro sulla teoria della diffusione. Egli partì dall’ipotesi, proposta solo qualche anno prima da Maxwell, che la luce fosse un’onda elettromagnetica, e studiò l’interazione di quest’onda con piccoli centri di diffusione come dovevano essere le particelle responsabili della colorazione del cielo.

Egli pervenne così ad un primo risultato fondamentale: se le dimensioni delle particelle sono piccole rispetto alla lunghezza d’onda incidente, allora l’intensità della luce diffusa risulta inversamente proporzionale alla quarta potenza della lunghezza d’onda. Ricordando che la lunghezza d’onda è inversamente proporzionale alla frequenza, possiamo anche dire che l’intensità di luce diffusa a una data frequenza è proporzionale alla quarta potenza della frequenza.

Lord Rayleigh descrisse i centri di diffusione come dei dipoli elettrici, delle particelle, cioè, in cui sono presenti due cariche opposte di uguale intensità, leggermente separate l’una dall’altra e in grado di vibrare lungo l’asse congiungente i due centri di carica. Oggi noi sappiamo che la materia è fatta da atomi e molecole con nuclei pesanti di carica positiva e leggere nubi elettroniche di carica negativa. Lord Rayleigh tutto questo non lo sapeva e anzi, come vedremo in seguito, la stessa esistenza degli atomi era in quel tempo tutta da verificare, ma applicando i modelli atomici e molecolari della meccanica quantistica i risultati che otteniamo non sono molto diversi dai suoi. Per semplificare il nostro modello immaginiamo dunque un atomo in cui gli elettroni possono “vibrare” intorno al nucleo, e un’onda elettromagnetica che incide sull’atomo. A comporre quest’onda vi è un campo elettrico vibrante, variabile appunto con la frequenza. L’elettrone (o la nube di elettroni) investito da questo campo si metterà a vibrare anch’esso, e il suo moto risulterà essere un moto periodico con frequenza uguale a quella della luce incidente. Un po’ di calcoli permettono di ricavare che l’accelerazione dell’elettrone risulta essere proporzionale al quadrato della frequenza.

A questo punto interviene ancora Maxwell. Una delle conseguenze più importanti della sua teoria dell’elettromagnetismo è che una carica elettrica in moto accelerato risulta essere sorgente di un’onda elettromagnetica, di frequenza uguale alla frequenza di vibrazione e il cui campo elettrico è proporzionale all’accelerazione della carica. Il nostro elettrone che sta vibrando emette quindi a sua volta un’onda luminosa che ha la stessa frequenza della luce incidente e che non è altro che la luce diffusa. L’intensità di questa luce è proporzionale, come per tutte le onde elettromagnetiche, al quadrato del campo elettrico che trasporta; così, siccome il campo elettrico era proporzionale all’accelerazione che era proporzionale al quadrato della frequenza, alla fine risulta che l’intensità della luce diffusa dall’atomo che stiamo considerando è proporzionale alla quarta potenza della frequenza.

Questo semplice ragionamento è però valido solo se la particella investita dall’onda elettromagnetica è piccola rispetto alla lunghezza d’onda della radiazione incidente, in modo che questa la possa investire, diciamo così, tutta d’un colpo, senza che il suo effetto si distribuisca in maniera diversa in diverse parti della particella. Inoltre questa ipotetica particella non deve possedere frequenze proprie di vibrazione che siano vicine alla frequenza della radiazione incidente, altrimenti interverrebbero fenomeni di risonanza a complicare notevolmente il quadro. Fatte queste ipotesi, peraltro perfettamente accettabili, il ragionamento funziona e la teoria di lord Rayleigh si sviluppa proprio su questa linea. Ecco quindi spiegato il colore del cielo.

Ogni molecola nell’aria è un centro di diffusione. La luce che colpisce tale molecola viene in parte diffusa e in parte trasmessa, cioè prosegue lungo la stessa direzione di incidenza. Lo spettro della luce visibile che incide sulla molecola, si estende da poco più di 4000 Å per il violetto a circa 7300 Å per il rosso, così che il rapporto tra le lunghezze d’onda delle due estremità è circa 1,8. Poichè l’efficienza del processo di diffusione è proporzionale alla quarta potenza di tale rapporto, se ne ricava che nella luce diffusa dalle molecole dell’aria la componente blu è quasi dieci volte più intensa rispetto al rosso che nella luce bianca proveniente direttamente dal Sole. Quando noi osserviamo il cielo in direzione lontana dal Sole è proprio questa luce diffusa che giunge ai nostri occhi e quindi il cielo ci appare blu. Lo stesso meccanismo spiega perchè il Sole al tramonto o all’alba appare arrossato anche se il cielo è perfettamente limpido. In tale circostanza, infatti, ciò che giunge ai nostri occhi è la parte di luce non diffusa dalle molecole, che ha dovuto attraversare un notevole spessore di aria. questa luce trasmessa è stata quindi fortemente impoverita delle componenti di lunghezza d’anda minore, più intensamente diffuse dalle molecole dell’aria, così che in essa risultano preponderanti i gialli e i rossi che ci offrono gli affascinanti spettacoli di luce che tutti ammiriamo. La teoria di lord Rayleigh spiegava bene, oltre ai colori del cielo, anche i risultati che aveva ottenuto qualche anno prima John Tyndall, altro fisico inglese, studiando la diffusione della luce dovuta a piccolissime particelle sospese in un liquido. Tyndall nei suoi esperimenti aveva utilizzato una soluzione di iposolfito di sodio in cui, per reazione con acido solforico, faceva precipitare delle piccolissime particelle di zolfo, che fungevano da centri di diffusione. Una versione più “casalinga”, ma qualitativamente valida, di questa esperienza, può essere effettuata disponendo semplicemente di un vaso di vetro, di una torcia elettrica, acqua e latte. Riempito d’acqua il vaso vi si faccia incidere la luce della torcia (in un ambiente abbastanza buio) e ci si disponga ad osservare in una direzione ortogonale a quella del fascio luminoso. Lasciando cadere nell’acqua qualche goccia di latte si noterà che dalla soluzione viene diffusa lateralmente una luce azzurrognola che diventerà via via biancastra man mano che si continua ad aggiungere latte, fino a che la soluzione non sarà diventata quasi completamente opaca. Come c’è da aspettarsi, se inveca di guardare in direzione ortogonale al fascio di luce si osserva direttamente la lampada, si vedrà la luce arrossarsi in maniera sempre più sensibile man mano che la concentrazione di latte aumenta. Il latte diffonde nell’acqua sotto forma di minuscole goccioline e finchè queste sono piccole rispetto alla lunghezza d’onda della luce incidente vale la legge di Rayleigh della quarta potenza. quando però le goccioline si ingrossano il fenomeno si complica e le approssimazioni fatte nel dedurre la teoria non sono più valide. Particelle di dimensioni prossime ai 1000 Å, sono già troppo grandi rispetto alla lunghezza d’onda della luce blu perchè sia ancora valida la legge di Rayleigh, ma sono ancora abbastanza piccole perchè questa stessa legge sia valida per la luce rossa. Così, approssimandoci a queste dimensioni, la diffusione della luce bianca incidente non è più descrivibile con un unico semplice modello valido per tutte le sue componenti e il risultato di questa complessa situazione è che tutte le lunghezze d’onda vengono diffuse più o meno allo stesso modo, così che la luce diffusa appare biancastra. Anche nell’aria quindi devono esserci delle particelle molto piccole che diffondono la luce, e il colore del cielo dipende in maniera critica dalle loro dimensioni. Leonardo aveva visto giusto. a lord Rayleigh rimaneva ancora un problema: cosa erano queste particelle responsabili della diffusione? Come abbiamo detto, la teoria da lui sviluppata è valida solo per le particelle le cui dimensioni non siano superiori a 1-2 decimi della lunghezza d’onda. L’idea che queste particelle potessero essere minuscole gocce di vapor d’acqua o grani di pulviscolo non poteva reggere. Il cielo appare più intensamente blu in alta montagna, o nelle giornate molto limpide e secche, proprio in quelle situazioni in cui l’umidità dell’aria è minima e il cielo più pulito. Fu lo stesso Maxwell a suggerire a lord Rayleigh che quelle particelle avrebbero potuto essere le molecole o gli atomi dei gas che costituiscono l’aria. A quei tempi questa era un’ipotesi decisamente avanzata, visto che parecchi fisici di fama erano ancora piuttosto scettici sulla natura atomica della materia, ma lord Rayleigh l’accettò, giungendo alla fine a formulare una teoria complessiva della diffusione “molecolare” della luce. Così l’azzurro del cielo finì per essere la prova più bella, anche se non definitiva, della natura atomica della materia. Una prova che oltretutto permetteva anche delle verifiche quantitative. E’ abbastanza facile infatti dimostrare che l’intensità della luce diffusa da una porzione di cielo dev’essere proporzionale alla quantità di molecole che la diffondono. Ciascuna di queste si comporta come una sorgente di luce completamente indipendente dalle altre, così che l’intensità della luce diffusa da quel pezzo di cielo apparirà al nostro occhio semplicemente come il prodotto dell’intensità diffusa da ogni singola molecola per il numero di molecole presenti. quest’ultimo, quando siano noti alcuni parametri come la pressione o la temperatura, può essere espresso per mezzo del numero di Avogadro N. Questo numero è il numero di molecole contenuto in una grammomolecola di qualunque sostanza. Un modo per dire che se si prendono diverse sostanze in quantità tali che il loro peso relativo sia uguale al peso relativo delle loro molecole, allora il numero di molecole presenti in ciascuna sostanza è lo stesso. Una volta fissata una scala per i pesi molecolari si potrà prendere una quantità di una qualunque sostanza il cui peso, espresso in grammi, sia numericamente uguale al suo peso molecolare (una grammomolecola); questa quantità conterrà allora un certo numero di molecole, uguale per tutte le sostanze, che si chiama appunto numero di Avogadro.

La determinazione esatta di questo numero, con diversi metodi, fu un problema fondamentale per i fisici della fine ‘800 e inizio ‘900 e un test cruciale per la validità della teoria molecolare della materia. Diverse misure vennero effettuate anche a partire dal blu del cielo e i risultati raggiunti, in buon accordo con quelli ottenuti per altre vie, contribuirono all’affermazione della teoria molecolare che oggi ci appare così naturale.